«Basta!» Mi accascio sulla vecchia poltrona strappata, davanti al finestrone, «mi arrend–» e una zaffata di polvere mi fa tossire l’anima.
Sventolo via il pulviscolo coi fogli per l’inventario, «questa casa prima o poi mi ammazza.»
Mi abbandono allo schienale, e mi lascio investire dalla luce del giardino. La strada è accidentata, le aiuole sono morte, la fontana all’ingresso è asciutta… ci vorrà un capitale a ristrutturare. Per non parlare dell’interno.
Sospiro. I fogli dell’inventario, vuoto, mi fissano indifferenti. «Tutta la mattina per niente.» Me li appoggio su una gamba e mi stropiccio la faccia. «Magari potrei buttar giù tutto e vendere il terreno.»
Il vento ulula e uno spiffero gelido passa da un buco nel vetro. I fogli volano via.
«Mapporca…» Bestemmio inseguendoli per la stanza. Le assi decrepite del pavimento cigolano a ogni passo. Rallento e, per sicurezza, converto le bestemmie in un monologo interiore.
«Aspetta…» Questo non è l’inventario.
Raccolgo una pagina di testo. Spessa. Quelle dei libri di una volta.
«L’esplorazione era stata infruttuosa. La villa era poco più che una catapecchia, dentro e fuori.» Sbuffo divertito. Che cos’è, un romanzo? Magari è un’edizione pregiata… «Midnight Hollow era priva di valore, sperando fosse anche priva di debiti.» Aggrotto la fronte. Midnight Hollow? “Questa” Midnight Hollow? «Il testamento gli aveva dato speranza, aveva risvegliato la sua ambizione ma, infine, si era rivelato solo una truffa.» Mi alzo di scatto. «Cos’è, uno scherzo?» Una risata scuote la casa. «Siete voi?» Se li immaginava, i suoi colleghi all’agenzia immobiliare, a sghignazzare compilando una finta eredità.
Una porta sbatte al vento, e mi restituisce un attimo di lucidità. La risata della casa è solo un cigolio.
«Ok… ok.» Forse è solo una coincidenza. Salto qualche riga e vado a fine pagina. «La casa non poteva ridere. Si ricompose. Midnight Hollow non è poi un nome così strano. Va bene per un romanzo. Forse, pensò, era solo una coincidenza.» Un btivido freddo mi percorre la schiena. Questo coso «conosce i miei pensieri.» Il respiro mi accelera. Voglio andarmene, voglio lasciare il dannato foglio ma il mio corpo non risponde. Non posso fare a meno di leggere. «E fu solo allora che si accorse che la pagina era strappata.» È vero. Il taglio è netto, appena visibile. Scuoto la testa, «No.» Impiego tutta la forza che ho e mi costringo a muovere le gambe, ma non riesco a distogliere lo sguardo dal foglio. «Se c’erano altri fogli, forse c’era anche il resto del libro. Magari c’erano altri libri. Magari, intanto che leggeva la sua immaginazione galoppava, se il libro era magico, lo erano anche gli altri. Sarebbero valsi una fortuna! Magari si trovavano proprio dietro la porta. Quella davanti a lui che prima non aveva notato.»
Oltre il bordo del foglio, uno spiffero allarga una lama di luce. Una porta. Prima non c’era. Le parole del foglio si fermano lì. Potrei andarmene, però… mi avvicino alla porta. Il ragionamento non è sbagliato. E dopo tutta la fatica di oggi… Un fruscio di pagine mi rinvigorisce. Libri! «Magari solo un’occhiata.»
Oltre la porta si apre un breve corridoio. Dai muri, lampade elettriche gettano aloni luminosi sul parquet immacolato. Il candore delle pareti ne riverbera la luce e amplifica i volumi.
Le spalle mi si rilassano, e il mio repiro riesce più facile.
Sul fondo, al di là di un arco, si intravede un tappeto elegante, un mobiletto con su un giradischi, e le foglie di un ficus che lo solleticano da destra. Ma ci vive qualcuno qui?
Attraverso il corridoio a bocca aperta. Man mano che avanzo, la stanza rivela, sulla destra, una scrivania e, a sinistra, un’ampia libreria, carica di volumi dall’aria raffinata.
«Quanti soldi…»
Di fronte agli scaffali, un’asta di ciliegio sorregge un leggio e, su di esso, uno spesso librone, aperto.
Il foglio che ho in mano fruscia, come scosso dal vento. Ho il braccio sollevato, teso verso il libro. «Ehm.» Devo… ricongiungerli?
Raggiungo il leggio. È regolato al millimetro sulla mia altezza. La pagina a sinistra del libro racconta di quando mi sono seduto in poltrona; quella a destra, del mio ingresso nel corridoio. In mezzo, c’è uno strappo.
Chissà se c’è scritto quanto m’intasco. Metto il foglio al suo posto, e volto pagina. Vuoto. Volto ancora. Vuoto. Sfoglio il resto del libro. Tutto vuoto. «Ma cosa…?»
Forse c’è un altro volume. Percorro gli scaffali con lo sguardo. In alto a destra c’è uno spazio libero. «Ah-ha!» Chiudo il testo e ce lo infilo.
Click.
La libreria scivola indietro e scorre di lato. Una serie di scatti e delle luci si accendono in sequenza lungo una rampa di scale in discesa.
«Ok…» Questa non me l’aspettavo. Magari un caveau. «Bingo?» Però se è abitata… oh, al diavolo. È mia adesso. Imbocco le scale.
Tre sussurri eterei mi raggiungono a metà delle scale. «Vattene.» Si accavallano gli uni sugli altri, creando una sorta di eco. «…attene …tene»
Faccio gli ultimi gradini verso una porta. Un ribollire è alternato dal bip di un qualche macchinario. «Vattene via… tene via… via.»
Apro. Enormi contenitori di vetro, pieni di liquido ribollente sono disposti in file su entrambi i lati di una lunga stanza. Alcuni sono illuminati e la luce, resa verdastra dal liquido che attraversa, si riflette debole e fredda sulle immediate circostanze. Nel buio, qui e là, un punto luminoso si accende, ora rosso, ora giallo, o verde.
Strizzo gli occhi per individuare una telecamera sul soffitto. «Chi siete? Abitate qua?»
«Prigionieri …eri.»
Le voci vengono da più avanti.
«Perduti …uti.»
Mi addentro verso l’origine dei sussurri.
«Testamento …ento.»
Alla parola mi blocco. «Sì! Sono stato nominato erede della proprietà».
«Lui sta arrivando …ando.»
Non vedo altoparlanti.
«Proprietario …ario.»
Ma da dove parlano?
«Vattene via …ia.»
Mi sbraccio verso la telecamera invisibile. «No. Io» mi batto un dito sul petto «sono il proprietario. Voi chi siete? Dovete andarvene.»
Qualcosa colpisce il vetro alle mie spalle.
La luce del contenitore di fianco sfarfalla e si accende, illuminando il profilo di una mano.
Le budella mi si annodano. Mi avvicino a passi cauti.
Dal liquido torbido emerge un corpo umano. «Non possiamo.»
Un’altro colpo risuona dall’altra fila. «Prigionieri.»
Un terzo colpo, più in fondo. «Testamento.»
Lo stomaco mi precipita in fondo ai piedi insieme al sangue della faccia. No, no, neanche per sogno. «Io… grazie,» alzo le mani «gentilssimi. Purtroppo devo andare.»
Un tonfo sordo rimbomba dalla cima delle scale.
Le voci levano un lamento. «È troppo tardi …ardi.»
I contenitori si spengono uno a uno. Dal buio, la porta d’accesso si chiude.
Faccio un passo indietro, con le mani in vista. «Io non volevo. Giuro! Ho letto il libro e-e l’ho rimesso a posto e…»
I prigionieri gemono sofferenti. «Si nutre di storie perdute …ute.»
Davanti a me c’è solo buio e un calmo rumore di passi.
Arretro ancora.
Il sussurro sull’altro lato della stanza è ridotto a un filo di voce. «Lo fanno rimanere in vita …ita.»
Urto con la schiena un pannello di vetro. La porta del contenitore è aperta. L’unica luce accesa è la sua.
Vengo spinto al suo interno. La porta si chiude alle mie spalle. «C’è un errore.» Mi scaglio sul vetro. Non c’è maniglia. «Liberatemi!»
Il buio non risponde.
Del liquido mi entra nelle scarpe. «Si sta riempiendo.» Il fluido verdastro risale il contenitore. «Si sta riempiendo.» Tempesto il vetro di pugni. «Ehi!»
Più sale, più i miei pugni si indeboliscono e la mia voce si riduce a un filo di voce. «Ehi…» Un sussurro etereo. «C’è un errore …ore.»
Passi calmi lasciano la stana, la porta si chiude e la luce del mio contenitore si spegne.